Tornai vergine per una notte

sono tornata vergine racconti erotici

II fidanzamento era stato annunciato da qualche giorno quando don Lulù (i nomi naturalmente li ho cambiati tutti) in un eccesso di follia amorosa, stringendomi e schiaffandomi contro un muro di casa sua, mi disse “Carmelina, voglio sentirti sotto.. fammela toccare, almeno…” e io, terrorizzata, strinsi le gambe come se dovessi difendere la mia verginità anche dalle carezze.

Ma di verginità, purtroppo, non ne avevo avanzata nemmeno un brandello. Era successo due anni prima, quando stavo da zia Bianca. Lei aveva un figlio che sta sempre in Canada ma che quella volta era a casa della madre.

Si chiamava Tano ed era la fine del mondo. Sensuale e lascivo, ogni giorno veniva nel mio letto, me la leccava, me la ripassava con le dita e io
imparavo a godere della mia femminilità.

E poi imparavo anche a gustarmi la minchia: in mano e in bocca, visto che di farmela sfondare non ne avevo certo voglia. La paura di restare incinta mi tratteneva. E anche la paura di non trovare più marito.

Ma la forza di attrazione di una minchia già gustata tra le dita e tra le labbra, era più forte di qualsiasi buon proposito. E cosi, una notte, vedendo che lui aveva incappucciato la nerchia in un preservativo, gli lasciai infilare la fava nella passera.

Mi fece un male bestiale che subito divenne un bene paradisiaco. Era forte e dura, calda e scivolosa e mi allargava le pareti della fregna come un cuneo. Me lo sciroppai per un’intera notte e poi ogni notte e ogni volta
che potevo..

Ero affamatissima di minchia, non avevo pace, mi facevo anche i ditalini nel bagno, prima di mettermi a letto, sapendo che poi sarebbe arrivato lui e mi avrebbe sfondata ancora di più.

E cosi che persi la verginità. Ora, quando successe che mi fidanzai con don Lulù, non sapevo a che santo votarmi. Poi, però, un santo di nome Rinuccio, un cugino carnale, mi venne in aiuto.

Era a casa nostra e s’era tagliato un po’ la pelle, facendosi la barba. Mi disse: “Melina. chiedi a papa se ha dell’allume di rocca… sì, quella cosa bianca che rimargina i tagli”.

Fu come un lampo nella testa, andai a prendere l’allume dì rocca e, il giorno dopo me ne comprai un pezzo tutto per me. Quando venne la fatidica notte nuziale, feci la recita della verginella che vuole restare sola per prepararsi spiritualmente al sacrificio.

Fu difficile, con don Lulù che mi strofinata la minchia contro il ventre, dicendomi in bocca: « Vieni, colombella mia, non avere paura, fattela scaldare un po’ con la lingua… ” Pensai che la lingua non avrebbe certo scoperto che ero sfondata. E lo lasciai leccare, fingendo di vergognarmi molto ma godendo come una vacca, bagnandolo abbondantemente in faccia.

Lo sentii farfugliare “Minchia! Calda, sei! E anche bellissima, come uno “sticchio” che è una gioia!” Feci appena in tempo a ritirami nel bagno e chiudermi dentro. E mentre lui da fuori diceva: “Gioia mia, non ti vergognare, sono tuo marito, te l’ho leccata e mi lasci cosi, a scoppiare da solo! Melina, tesoro, esci da li e ti prometto che te lo faccio piano piano”,

Io, però, stavo facendo qualcosa che lui non poteva immaginare, me la stavo strofinando dentro e fuori con l’allume di rocca. Sentivo un gran freddo dentro e fuori, il grilletto mi si induriva sempre più e la spacca si contraeva. Era miracolosa, quella cosa bianca che stavo strofinandomi. Ero così felice che mi feci persino un ditalino, con il pezzetto di allume che via via andavo ripassando sul grilletto e sulle labbra della figa.

Alla fine, avevo una gnocca cosi stretta che mi ci passava a malapena un ditino mignolo. Mi feci coraggio e, tenendomi stretta la vestaglia di seta attorno al corpo nudo, aprii la porta e mi trovai subito tra le braccia forti di mio marito.

Dovevo impedirgli che me la leccasse, però mi accorsi presto che lui non aveva nessuna intenzione di riprendere la leccata. Aveva la minchia in mano e mi stava spingendo verso il letto. Mi raccomandai l’anima e il corpo e lasciai che mi facesse piombare sul lettone soffice e alto.

Poi sentii che mi allargava le gambe e che infilava quella specie di cannone nella fregna rattrappita dall’allume. Sentii una specie di fuoco tra le labbra: un male cosi non l’avevo sentito nemmeno quando davvero m’avevano sverginata.

Gridai e gli morsi il collo dolcemente, per fargli capire che soffrivo e lui, chiavandomi piano ma a fondo, prese a leccarmi le tette e il viso. Ero a posto. Alla fine, c’era persino un po’ di sangue sul lenzuolo, tanta fu la potenza della nerchia.

Carmela di Catania


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